Occhi d’oro.

 

Scendo dalla barca che dalla grande nave mi ha portato qui. Sono spaesato, l’agitazione è tale che vorrei tornare indietro, ma Spencer si è allontanato subito dalla riva, ora non posso che avanzare. Che mi è saltato in mente di dare retta a quei matti? Ce ne fosse uno sano, in quel gruppo!
So per certo che, seduta al bistrot affacciato sul molo – un bar a imitazione di una Parigi d’epoca – Lei mi attende. Cammino lungo il porticciolo, attraverso la passerella sospesa nella luce del tardo pomeriggio, sotto di me lo sciabordio lento. Non sono sicuro che possa riconoscermi tra il riflesso dell’acqua e dell’acciaio, la struttura moderna allontana il ricordo del posto che era, eppure rimane quel fascino retrò che tanto ama e mi dico che non fa differenza che epoca sia. Basta che sia me stesso, in fin dei conti arrivo dal suo Altrove.
Che importa che sembianze ho oggi?
La riconosco subito, sarà il modo di sedersi, saranno quelle scarpe eleganti dopo che per anni l’ho vista scalza e nuda, ma è proprio quel particolare e la sua delicatezza, a farmela riconoscere tra mille. Strascico i piedi, d’improvviso ho paura di aver azzardato il passo. Potevo chiedere a Jim di accompagnarmi, o seguire lo strano consiglio di Tarrant, di mettermi un cappello, o chiedere in prestito i sassolini del suo sentiero. Qualsiasi cosa mi potesse far riconoscere nell’immediato, evitandomi l’imbarazzo.
Ho ancora la giacca sul braccio, le scarpe me le hanno lucidate con lo sputo quei pirati, e i pantaloni con le pinces non sono lisciati per bene – ma che posso pretendere, è stata Nina a stirarli per me! -, così mi passo la mano tra i capelli e che importa se la riga non sarà pettinata? Faccio così quando sono nervoso e non lo sono da decenni, credo.
Mi fermo dietro il pilastro, mi volto verso l’acqua e vedo la bella imbarcazione alla ferma, quella nave della fantasia di qualcuno, il fiore d’Oro, dicono. Sospiro, infilo la giacca chiara e avanzo. Voglia di fumare, infilo la mano in tasca, non voglio che si vedano le mie dita tremare.
Lei indossa un abito estivo e leggero, è dello stesso azzurro chiaro di quello che indossava nel 1951, la sera prima che partissi con Alberto, ma adesso ha una sicurezza maggiore. I capelli non li porta più in morbide onde, immagino che la moda sia cambiata e mi chiedo se il mio abbigliamento sia consono, adesso ha un taglio liscio che le sfiora le spalle abbronzate e il colore è più chiaro del suo biondo naturale, è il colore di quando era bambina.
Si è servita e sorseggia del vino, i miei preparativi impacciati hanno tardato il mio arrivo, ma che importa, ormai sono qui. Non sembra arrabbiata, se lo fosse, me ne accorgerei, conosco ogni suo atteggiamento. È che aspetta tutt’altra persona!
Un passo, due, ecco che le sono davanti.
Mi fermo e lei alza il braccio per schermarsi gli occhi, mentre volge il viso per guardarmi.
«Aspettavi Nina, lo so, ma ci sono io.», dico mangiandomi un po’ le parole.
Lei resta seria e mi fa segno di sedermi. Mi accomodo rigido e ubbidiente, il piede impaziente pronto a scappare.
Ora il sole non l’acceca e può guardarmi in volto. La guardo come se fosse la prima volta, mi sento sotto esame e sono nervoso, ma mi riempio la memoria dei suoi lineamenti. Ha gli occhi d’oro, pieni di fiducia, caldi di sole e corposi come il miele. Mi scruta e mi affretto ad escogitare una giustificazione, temendo che possa andarsene senza darmi possibilità di spiegare.
Lei beve un altro sorso e sorride leggermente, quasi mi avesse letto nei pensieri, mi rassicura: «Non scapperò, non chiuderò la porta prima ancora d’averla aperta. Hai gli occhi di Nina, non avrò paura di te, davvero. Come ti chiami?», domanda infine con la sua bella voce che pare fatta di campanelli.
Capisco che domanda il mio nome solo per avere una conferma, ma posso udire la furia spaventata del suo cuore e so che posso perderla ancora. Troppe volte è fuggita identificandomi con qualcun altro, troppe volte ha inseguito l’uomo sbagliato credendo fossi io. Devo trattenerla, so che altrimenti sparirà, aspetterò la fine serata per dirle la verità e svelarmi, comincerò con darle un’identità che la rassicuri: «Sono Antonio.»
Lei scoppia a ridere di gioia: «No, che non lo sei! » e i suoi occhi dorati luccicano complici, divertiti e felici, cancellando il resto intorno a noi.

So che non sceglierà più il buio.